La responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti: una recente sentenza del Tribunale di Roma.

Il liquidatore di una società estinta è ritenuto responsabile nei confronti di un creditore che non ha ricevuto quanto dovuto, se il creditore dimostra che nel bilancio finale di liquidazione risultava abbastanza attivo per coprire il debito, ma questo è stato distribuito ai soci.

Inoltre, il liquidatore può essere ritenuto responsabile se la mancanza di attivo è dovuta a comportamenti dolosi o negligenti.

Questa è la conclusione della sentenza n. 2794 del 24 febbraio 2025 del Tribunale di Roma.

La recente sentenza del Tribunale di Roma affronta la responsabilità del liquidatore di una società di capitali estinta riguardo ai danni subiti da un creditore a causa del mancato recupero del credito. Dopo le modifiche al diritto societario, si è sviluppato un acceso dibattito giurisprudenziale sulla natura dell’estinzione delle società cancellate dal Registro delle imprese.

Alcune pronunce della Corte di Cassazione sostengono che la cancellazione non determina l’estinzione della società fino a quando non siano definiti tutti i rapporti giuridici e le controversie pendenti. Al contrario, un altro orientamento, avallato dalle Sezioni Unite nel 2010, ha stabilito che l’art. 2495 c.c. impone un’interpretazione innovativa: la cancellazione produce un’estinzione irreversibile della società, anche in presenza di debiti non saldati. La sentenza delle Sezioni Unite ha precisato che l’estinzione avviene contestualmente all’iscrizione della cancellazione nel Registro delle imprese, riconoscendo che i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e dei liquidatori.

Nel caso di obbligazioni e diritti non definiti al momento della cancellazione, la Cassazione ha stabilito che tali elementi si trasferiscono ai soci, secondo le normative applicabili. Ciò implica che non esiste un patrimonio sociale distinto da quello personale dei soci, e i creditori dovranno rivalersi su di essi, con limitazioni rispetto alla quota di liquidazione ricevuta.

La responsabilità del liquidatore, come delineato dall’art. 2489, comma 2, c.c., è legata all’obbligo di agire con professionalità e diligenza. Durante la liquidazione, il liquidatore deve perseguire la conservazione del patrimonio sociale, tutelando sia gli interessi dei creditori che quelli dei soci. Tuttavia, il suo operato deve rimanere nell’ambito di un’area di discrezionalità riguardo ai tempi e ai metodi di liquidazione.

La responsabilità del liquidatore è considerata extracontrattuale, ponendo sul creditore l’onere di dimostrare il dolo o la colpa del liquidatore, il pregiudizio subito e il nesso causale. Questa responsabilità non deve essere confusa con un’obbligazione contrattuale, poiché deriva dall’incarico assunto dal liquidatore e non dall’obbligazione della società nei confronti dei creditori.

Nella sentenza in oggetto, il Tribunale di Roma ha ribadito che il creditore deve provare che la liquidazione non è stata condotta in modo da rispettare il principio della par condicio creditorum. In particolare, il creditore deve dimostrare che, al momento della liquidazione, esisteva una massa attiva sufficiente a soddisfare il credito, oppure che il liquidatore ha tenuto una condotta dolosa o colposa che ha impedito il recupero del patrimonio.

Infine, il Tribunale ha chiarito che la responsabilità del liquidatore non sussiste se il mancato pagamento del debito sociale deriva dalla mancanza di risorse economiche, e non da un errore nella gestione della liquidazione. Questo approccio mira a garantire che la responsabilità del liquidatore non si traduca in una responsabilità oggettiva, mantenendo il focus sull’effettivo nesso causale tra la condotta del liquidatore e il danno subito dal creditore.

Appalto: da quanto decorre il termine per denunciare i vizi?

Secondo la Cassazione, il termine per segnalare gravi difetti in un’opera in base all’art. 1669 c.c. inizia solo quando il committente è certo dei difetti. Questo avviene quando si comprende la gravità dei difetti e si identificano le cause tramite accertamenti tecnici. Questo è quanto stabilito nell’ordinanza del 18 marzo 2025 n. 7206.

La vicenda riguarda la costruzione di un edificio trifamiliare da parte della società Alfa, con progettazione del geom. Tizio e direzione lavori dell’arch. Caio. Nel 2000, tre soggetti acquistano le unità immobiliari, ma subito dopo emergono problemi di infiltrazioni d’acqua nei locali interrati. Nel 2001, la società Alfa esegue lavori di drenaggio, ma le infiltrazioni si ripresentano nel 2003 e nel 2008.

Nel 2008, i proprietari si rivolgono al Tribunale di Treviso per un accertamento tecnico, che attribuisce i difetti a carenze progettuali e costruttive, in particolare alla discontinuità del sistema di fondazione. I proprietari chiedono quindi, ai sensi dell’art. 1669 c.c., un risarcimento, ma i convenuti sollevano eccezioni di decadenza e prescrizione, sostenendo che i vizi fossero noti dal 2000. Il Tribunale rigetta tali eccezioni, stabilendo che i difetti erano stati scoperti nel 2008 e condanna i convenuti a pagare il risarcimento.

La Corte di appello di Venezia modifica la sentenza, accogliendo l’eccezione di prescrizione e affermando che i difetti erano stati denunciati nel 2000, sottolineando che il drenaggio del 2001 non costituiva un nuovo inizio del termine di prescrizione. La Corte rigetta quindi la domanda di risarcimento e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Gli attori ricorrono in Cassazione e la Suprema Corte accoglie il ricorso, annullando la sentenza impugnata e ribadendo che l’art. 1669 c.c. stabilisce che il termine decennale inizia a decorrere solo dal “compimento” dell’opera, e non dalla semplice costruzione. La Corte di Appello non ha accertato correttamente quando l’opera fosse da considerarsi completata, confondendo il completamento con la semplice edificazione.

La Cassazione evidenzia che il termine per la denuncia dei difetti non può iniziare finché il committente non ha piena consapevolezza dei problemi, il che è possibile solo dopo accertamenti tecnici. Nel caso specifico, il termine per la denuncia non sarebbe iniziato prima dell’ottobre 2009, quando è stato depositato l’accertamento tecnico preventivo. La Corte chiarisce che il termine può essere anticipato solo in presenza di condizioni ben definite, ovvero se il problema è immediatamente percepibile nella sua entità e cause.

Eredità e conto corrente cointestato: cosa accade se il denaro è stato apportato solo dal defunto?

La sentenza n. 4142 del 18 febbraio 2025 della Cassazione civile ha trattato la questione della proprietà delle somme in un conto corrente cointestato, quando queste provengono solo da uno dei cointestatari. La Corte ha esaminato come suddividere l’importo tra gli aventi diritto e le modalità di restituzione dei prelievi. Ha stabilito che la prova della sostanziale titolarità del conto può essere dimostrata anche con presunzioni. Inoltre, un’erede cointestataria non deve restituire tutti i prelievi se si dimostra che sono stati utilizzati per le cure dei genitori o per il proprio sostentamento, in base al principio di solidarietà familiare.

Nel caso in esame, gli eredi di un defunto hanno intentato causa contro la sorella e la madre, accusando la sorella di essersi appropriata di somme su un conto cointestato con il padre, alimentato solo dal defunto. Il Tribunale ha respinto la richiesta, ma la Corte di Appello di Brescia ha riformato la sentenza, stabilendo che le somme appartenevano al defunto e ordinando alla sorella di restituire gli importi, suddividendoli tra gli eredi.

La sorella ha quindi presentato ricorso in Cassazione, contestando principalmente la divisione delle somme in tre quote invece di quattro, poiché la madre era deceduta durante il processo. La Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, affermando che la divisione doveva avvenire secondo il numero originale dei coeredi.

La sorella ha anche contestato il fatto che l’intero importo fosse considerato patrimonio del defunto, sostenendo di aver contribuito al conto. La Cassazione ha chiarito che, sebbene la cointestazione presuma una divisione uguale, è possibile dimostrare una diversa titolarità se si forniscono prove adeguate.

La Corte ha infine stabilito che l’importo da restituire alla massa ereditaria deve essere determinato solo dopo aver verificato come sono state utilizzate le somme, considerando le necessità di sostentamento e assistenza dei genitori per la sorella, priva di reddito. Pertanto, l’addebito dell’intero importo dei prelievi alla sorella è stato ritenuto infondato, e il rimborso deve essere calcolato dopo un’attenta analisi delle spese.

Per ottenere la documentazione bancaria, si può procedere con un decreto ingiuntivo contro la Banca?

Il diritto alla consegna di copia della documentazione, previsto dall’art. 119 TUB, è un diritto sostanziale che può essere tutelato in via autonoma in sede giurisdizionale. Esso può essere esercitato tramite ricorso per decreto ingiuntivo, finalizzato alla consegna della documentazione, indipendentemente dalle modalità necessarie per ottenerne la copia. Questo è stato stabilito dalla Cassazione civile con l’ordinanza n. 8173/2025.

La Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello contro una sentenza del Tribunale di Velletri, che aveva annullato il decreto ingiuntivo per la consegna di documentazione richiesta dal cliente, sostenendo la Corte che il diritto di cui all’art. 119 TUB non può essere esercitato tramite decreto ingiuntivo, poiché la documentazione deve essere previamente formata e l’appellante non aveva anticipato le spese necessarie.

Il Cliente ha presentato ricorso per cassazione, che è stato accolto dalla Suprema Corte, chiarendo che il diritto del cliente di ottenere copia della documentazione bancaria è un diritto sostanziale, tutelabile autonomamente. La richiesta di consegna di documentazione, pertanto, può essere oggetto di una domanda specifica in sede giurisdizionale, anche attraverso il procedimento per decreto ingiuntivo, se sussistono i presupposti di legge.

L’oggetto della domanda monitoria è infatti il diritto di ricevere la documentazione, configurandosi come un’obbligazione di dare, e non di fare. La Corte di Cassazione ha in particolare evidenziato che la formazione della copia è un aspetto secondario rispetto all’obbligo di consegna. Inoltre, il diritto si riferisce alla “documentazione” in qualsiasi supporto essa sia, considerando che oggi gran parte dei dati è informatizzata.

In sintesi, il diritto alla consegna di copia della documentazione, ai sensi dell’art. 119 TUB, può essere esercitato anche tramite decreto ingiuntivo, indipendentemente dalle modalità necessarie per ottenere tale copia.

Se un comproprietario di un terreno vi costruisce un edificio, ne acquisiscono la proprietà anche gli altri?

Se uno o più comproprietari costruiscono un edificio sul fondo comune, tutti i comproprietari, sia i costruttori che gli altri, acquisiscono la costruzione proporzionalmente alle loro quote, a meno che non ci sia un accordo scritto diverso. Poiché la costruzione è considerata un’innovazione e segue il principio dell’accessione, deve essere considerata nella valutazione del bene e nella determinazione delle quote e dei conguagli. Questo è stabilito dalla Cassazione Civile, sez. II, sentenza 18 febbraio 2025, n. 4219.

Gli attori hanno avviato un’azione legale per accertare il loro diritto di comproprietà su un cortile ereditato dal padre, che lo aveva posseduto insieme ai due fratelli. Questi ultimi avevano iniziato a costruire un muro per suddividere il cortile e costruire unità immobiliari. Nei primi gradi di giudizio, gli attori hanno ottenuto il riconoscimento della loro quota di un terzo. Tuttavia, la Corte d’Appello ha escluso il valore degli edifici costruiti dai convenuti, dichiarando che non era dovuto alcun conguaglio.

I ricorrenti hanno contestato la sentenza, sostenendo che fosse contraddittoria e basata su un’erronea applicazione delle norme sull’accessione. La Cassazione ha ritenuto fondati i motivi di ricorso, evidenziando che il giudice può distribuire i beni in modo diverso dall’assegnazione proporzionale delle quote, purché il valore dei beni sia equamente rappresentato.

Inoltre, la Cassazione ha confermato che l’accessione si applica anche tra comproprietari, pertanto la costruzione sul fondo comune è di proprietà di tutti, salvo diverso accordo scritto. Di conseguenza, il valore della costruzione deve essere considerato nella divisione e nei conguagli monetari.

La Corte ha rigettato la richiesta di risarcimento per il mancato godimento del bene da parte dei ricorrenti, affermando che l’occupazione da parte di alcuni comproprietari non è illecita, a meno che non venga impedito l’uso agli altri. Gli attori non hanno dimostrato di aver richiesto l’uso del bene.

Infine, il ricorso incidentale dei convenuti per il rimborso delle spese di costruzione è stato dichiarato inammissibile, poiché la richiesta di accertamento di un credito tra comproprietari necessità di un’istanza espressa.

In caso di errore medico, ne risponde anche la casa di cura che fornisce i locali sanitari e la strumentazione?

Con la sentenza 27/03/2025 n. 8163 la Corte di Cassazione ha confermato che – in caso di responsabilità medica – la struttura sanitaria locatrice dei locali ove l’intervento è stato eseguito non risponde dei danni causati dal medico.

La pronuncia è conforme a precedente decisione di legittimità (Cass. Civ. n. 34516 del 2023).

Nel caso di specie Tizio aveva subito danni alla vista dopo un intervento eseguito dal dott. Caio presso una casa di cura, chiedendone il relativo risarcimento a quest’ultima. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ma la Corte di Appello ha parzialmente riformato la decisione con la casa di cura che ha quindi impugnato la sentenza in Cassazione.

La Corte ha accolto il ricorso della struttura, ritenendo che la locazione di locali e strumentazione medica alla società Alfa, di cui il dott. Caio era socio, non trasforma il contratto di locazione in una collaborazione professionale. La responsabilità della casa di cura per l’operato del medico sussiste infatti solo se vi è un obbligo contrattuale diretto verso il paziente e la locazione non implica un obbligo di prestazione sanitaria né rende la struttura responsabile per eventuali errori del medico.

In sintesi, la responsabilità della struttura sanitaria per i danni causati da un medico sussiste solo se esiste un rapporto di collaborazione diretto e non può derivare dalla mera locazione di spazi a una società di medici. Pertanto, la casa di cura non è stata ritenuta responsabile per gli atti professionali del medico operante in un contesto di (mera) locazione.