E’ responsabile il mediatore che non informa l’acquirente dell’esistenza di un’ipoteca? Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione.

Il mediatore, sia che operi autonomamente (mediazione tipica) sia su incarico delle parti (mediazione atipica), è obbligato a comportarsi secondo i principi di buona fede e correttezza. È tenuto a informare le parti su circostanze rilevanti, note o conoscibili con la diligenza qualificata di cui all’art. 1175 c.c., che possano influenzare l’esito dell’affare. Questa responsabilità include la comunicazione riguardante iscrizioni o trascrizioni relative all’immobile, senza necessità di un incarico specifico per effettuare verifiche più approfondite. Questo principio è confermato dall’ordinanza della Cassazione civile n. 9395 del 10 aprile 2025.

Tizio e Caio hanno citato in giudizio Mevio e Sempronio presso il Tribunale di Napoli, esponendo di aver stipulato, con l’intermediazione di Sempronio, un contratto preliminare di compravendita di un immobile di proprietà di Mevio. Il contratto prevedeva un termine essenziale per la conclusione del definitivo fissato al 30-12-2016. Tuttavia, dopo la stipula del preliminare, Tizio e Caio hanno scoperto che l’immobile era gravato da un’ipoteca, contrariamente a quanto dichiarato da Mevio nel contratto.

Poiché Mevio non aveva provveduto a liberare l’immobile dal vincolo, come richiesto tramite una lettera del 5-11-2016, Tizio e Caio hanno chiesto la condanna di Mevio al pagamento del doppio della caparra, pari a Euro 20.000,00, ai sensi dell’art. 1385 del codice civile. Inoltre, hanno richiesto che fosse dichiarata la responsabilità di Sempronio e che lo stesso fosse condannato a rimborsare una somma complessiva di Euro 7.220,00, che comprendeva Euro 4.500,00 a titolo di restituzione del compenso professionale, oltre ad altre spese sostenute per la concessione del mutuo.

Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda proposta nei confronti di Mevio, dichiarando legittimamente esercitato il recesso da parte di Tizio e Caio ex art. 1385 c.c. e condannando Mevio al pagamento della caparra, con gli interessi. Tuttavia, la domanda proposta contro Sempronio è stata rigettata.

In seguito, Tizio e Caio hanno presentato appello, chiedendo l’accoglimento della domanda di restituzione della provvigione e di risarcimento del danno nei confronti di Sempronio. La Corte d’appello di Napoli, nel dispositivo, ha parzialmente accolto l’appello, riconoscendo la responsabilità di Sempronio per la mancata conclusione dell’affare e condannandolo a pagare Euro 7.220,00 a favore di Tizio e Caio.

Sempronio ha quindi proposto ricorso per cassazione. La Corte di Cassazione ha accolto in parte il ricorso, osservando che nessuna delle deduzioni avanzate da Sempronio riusciva a mettere in discussione il principio secondo cui il mediatore, sia quando agisce in modo autonomo (mediazione tipica) sia su incarico delle parti (mediazione atipica), è tenuto a comportarsi secondo i principi di buona fede e correttezza. Il mediatore deve informare le parti riguardo a circostanze conosciute o conoscibili, in base alla diligenza qualificata prevista dall’art. 1175 del codice civile, che possano incidere sul buon esito dell’affare. Questo senza che le eventuali più penetranti verifiche a ciò necessarie postulino il previo conferimento di specifico incarico, tali essendo -per quanto qui interessa – le circostanze afferenti alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile.

In generale, è stato ribadito che per riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando tra le parti si è costituito un vincolo giuridico che consenta a ciascuna di esse di agire per l’esecuzione specifica del contratto, ai sensi dell’art. 2932 c.c., o per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato. Tuttavia, nella fattispecie, la Corte ha escluso il diritto di Sempronio a trattenere la provvigione non perché non fosse stato concluso un contratto, ma per il fatto che la mancata conclusione dell’affare era stata causata anche dall’inadempimento di Sempronio nel fornire le informazioni necessarie.

La responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti: una recente sentenza del Tribunale di Roma.

Il liquidatore di una società estinta è ritenuto responsabile nei confronti di un creditore che non ha ricevuto quanto dovuto, se il creditore dimostra che nel bilancio finale di liquidazione risultava abbastanza attivo per coprire il debito, ma questo è stato distribuito ai soci.

Inoltre, il liquidatore può essere ritenuto responsabile se la mancanza di attivo è dovuta a comportamenti dolosi o negligenti.

Questa è la conclusione della sentenza n. 2794 del 24 febbraio 2025 del Tribunale di Roma.

La recente sentenza del Tribunale di Roma affronta la responsabilità del liquidatore di una società di capitali estinta riguardo ai danni subiti da un creditore a causa del mancato recupero del credito. Dopo le modifiche al diritto societario, si è sviluppato un acceso dibattito giurisprudenziale sulla natura dell’estinzione delle società cancellate dal Registro delle imprese.

Alcune pronunce della Corte di Cassazione sostengono che la cancellazione non determina l’estinzione della società fino a quando non siano definiti tutti i rapporti giuridici e le controversie pendenti. Al contrario, un altro orientamento, avallato dalle Sezioni Unite nel 2010, ha stabilito che l’art. 2495 c.c. impone un’interpretazione innovativa: la cancellazione produce un’estinzione irreversibile della società, anche in presenza di debiti non saldati. La sentenza delle Sezioni Unite ha precisato che l’estinzione avviene contestualmente all’iscrizione della cancellazione nel Registro delle imprese, riconoscendo che i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e dei liquidatori.

Nel caso di obbligazioni e diritti non definiti al momento della cancellazione, la Cassazione ha stabilito che tali elementi si trasferiscono ai soci, secondo le normative applicabili. Ciò implica che non esiste un patrimonio sociale distinto da quello personale dei soci, e i creditori dovranno rivalersi su di essi, con limitazioni rispetto alla quota di liquidazione ricevuta.

La responsabilità del liquidatore, come delineato dall’art. 2489, comma 2, c.c., è legata all’obbligo di agire con professionalità e diligenza. Durante la liquidazione, il liquidatore deve perseguire la conservazione del patrimonio sociale, tutelando sia gli interessi dei creditori che quelli dei soci. Tuttavia, il suo operato deve rimanere nell’ambito di un’area di discrezionalità riguardo ai tempi e ai metodi di liquidazione.

La responsabilità del liquidatore è considerata extracontrattuale, ponendo sul creditore l’onere di dimostrare il dolo o la colpa del liquidatore, il pregiudizio subito e il nesso causale. Questa responsabilità non deve essere confusa con un’obbligazione contrattuale, poiché deriva dall’incarico assunto dal liquidatore e non dall’obbligazione della società nei confronti dei creditori.

Nella sentenza in oggetto, il Tribunale di Roma ha ribadito che il creditore deve provare che la liquidazione non è stata condotta in modo da rispettare il principio della par condicio creditorum. In particolare, il creditore deve dimostrare che, al momento della liquidazione, esisteva una massa attiva sufficiente a soddisfare il credito, oppure che il liquidatore ha tenuto una condotta dolosa o colposa che ha impedito il recupero del patrimonio.

Infine, il Tribunale ha chiarito che la responsabilità del liquidatore non sussiste se il mancato pagamento del debito sociale deriva dalla mancanza di risorse economiche, e non da un errore nella gestione della liquidazione. Questo approccio mira a garantire che la responsabilità del liquidatore non si traduca in una responsabilità oggettiva, mantenendo il focus sull’effettivo nesso causale tra la condotta del liquidatore e il danno subito dal creditore.