Divieto di fumo e licenziamento

Un lavoratore è stato licenziato per giusta causa dopo essere stato sorpreso a fumare in un’area air-side dell’aeroporto, dove vigevano severe regole di sicurezza. Nonostante il comportamento fosse stato tollerato dai superiori per un lungo periodo, la Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, con l’ordinanza del 24 marzo 2025, n. 7826, ha sottolineato che la tolleranza del datore di lavoro non annulla l’illiceità di una condotta vietata dalla legge.

Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano dichiarato illegittimo il licenziamento, ordinando la reintegrazione del dipendente e il risarcimento.

Tuttavia, la Cassazione ha accolto il ricorso della società, evidenziando che la tolleranza del datore di lavoro non esclude l’illiceità della condotta.

Ha stabilito due principi chiave: 1) le norme di sicurezza sono inderogabili e la loro violazione è disciplinarmente rilevante, e 2) l’errore incolpevole può escludere la responsabilità solo se il lavoratore è stato ingannato da ambiguità oggettive.

Nel caso specifico, era chiaro che il lavoratore fosse a conoscenza del divieto di fumo, avesse ricevuto formazione sulla sicurezza e che non ci fossero elementi che giustificassero una sua buona fede incolpevole.

Di conseguenza, la Cassazione ha annullato la sentenza e rinviato il caso, chiarendo che la tolleranza del datore non sana automaticamente comportamenti illeciti e che l’onere della prova per dimostrare un errore scusabile è a carico del lavoratore.

In caso di errore medico, ne risponde anche la casa di cura che fornisce i locali sanitari e la strumentazione?

Con la sentenza 27/03/2025 n. 8163 la Corte di Cassazione ha confermato che – in caso di responsabilità medica – la struttura sanitaria locatrice dei locali ove l’intervento è stato eseguito non risponde dei danni causati dal medico.

La pronuncia è conforme a precedente decisione di legittimità (Cass. Civ. n. 34516 del 2023).

Nel caso di specie Tizio aveva subito danni alla vista dopo un intervento eseguito dal dott. Caio presso una casa di cura, chiedendone il relativo risarcimento a quest’ultima. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ma la Corte di Appello ha parzialmente riformato la decisione con la casa di cura che ha quindi impugnato la sentenza in Cassazione.

La Corte ha accolto il ricorso della struttura, ritenendo che la locazione di locali e strumentazione medica alla società Alfa, di cui il dott. Caio era socio, non trasforma il contratto di locazione in una collaborazione professionale. La responsabilità della casa di cura per l’operato del medico sussiste infatti solo se vi è un obbligo contrattuale diretto verso il paziente e la locazione non implica un obbligo di prestazione sanitaria né rende la struttura responsabile per eventuali errori del medico.

In sintesi, la responsabilità della struttura sanitaria per i danni causati da un medico sussiste solo se esiste un rapporto di collaborazione diretto e non può derivare dalla mera locazione di spazi a una società di medici. Pertanto, la casa di cura non è stata ritenuta responsabile per gli atti professionali del medico operante in un contesto di (mera) locazione.

Il proprietario di un immobile risponde dell’infortunio mortale avvenuto durante la ristrutturazione?

“Il committente non professionale, può essere ritenuto responsabile per un infortunio sul lavoro solo a determinate condizioni.”

Lo ha ribadito la Corte Cassazione Penale, Sez. 4, con la sentenza del 4 febbraio 2025, n. 4409 che si è occupata proprio di un caso di omicidio colposo (art. 589, commi 1 e 2, cod. pen.) nel quale due soggetti, A.A., nella qualità di committente dei lavori di ristrutturazione di un rudere ex casa colonica, e G.G., in qualità di progettista, direttore dei lavori, coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione dell’opera, per colpa generica e in violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, avevano la morte di H.H.. Questi, mentre era intento a demolire manualmente la muratura portante dell’anzidetto fabbricato (all’interno della quale erano stati posizionati dalla ditta I.I. un ponteggio metallico ed una benna in cui dovevano essere scaricati i materiali di risulta), era stato travolto dal crollo del secondo solaio, sprofondando all’interno del fabbricato e rovinando al suolo sottostante, riportando gravi lesioni cranio encefaliche che ne determinavano l’immediato decesso.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del committente che era stato condannato perché non aveva verificato che la documentazione fosse stata adeguata al mutamento dell’opera e che non aveva nominato, (…) un responsabile dei lavori che vigilasse sul l’operato del coordinatore per l’esecuzione.

La sentenza ha preso atto che il committente era un “privato”, cioè  un soggetto non professionale, come avviene quasi sempre negli appalti domestici, dove chi affida i lavori, solitamente il proprietario dell’immobile non ha competenze tecniche per esigere il rispetto della normativa antinfortunistica. Neppure si  può pretendere che egli abbia quelle conoscenze, altrimenti si bloccherebbe la manutenzione domestica che richiederebbe una formazione per i cittadini comuni, peraltro non prevista dalla legge.

Ciò però non significa che il committente privato sia del tutto privo di obblighi e, quindi, di responsabilità.

In primo luogo, egli risponde per la cosiddetta “culpa in eligendo”, ovvero per aver scelto una ditta esecutrice chiaramente non idonea a svolgere quei lavori oppure priva dei titoli previsti dalla legge. Inoltre, egli è responsabile se si è intromesso nell’organizzazione o nell’esecuzione del lavoro, o se ha ignorato situazioni di pericolo facilmente percepibili.”

In merito alla mancata nomina di un responsabile dei lavori, ossia la figura tecnica che il committente non professionale può (o, meglio, deve) individuare proprio per sopperire alle sue mancanze conoscitive, i giudici hanno evidenziato che l’imputato aveva dato ampio mandato ad un altro soggetto la cui caratura professionale era stata riconosciuta anche dai giudici di merito.

Orbene: questo soggetto aveva agito, di fatto, come il responsabile dei lavori, sebbene l’incarico conferitogli non facesse formale richiamo a tale figura. Il che è stato sufficiente, per la Suprema Corte, per mandare esente da responsabilità il privato.

Questa sentenza si inserisce in un solco esegetico consolidato che raramente ha trovato espressioni contrarie.