Sversamento di reflui: è scarico o sono rifiuti liquidi? La Corte di Cassazione precisa i confini tra le due fattispecie.

La sentenza Cass. pen., Sez. III, 10 marzo 2025, n. 9558 affronta un tema centrale e molto discusso nel diritto penale ambientale: la qualificazione giuridica degli sversamenti di reflui fognari e la responsabilità omissiva del sindaco in caso di eventi inquinanti evitabili, in contesti di criticità infrastrutturale nota e persistente.
Il caso concreto riguarda il sindaco di un Comune condannato per non aver disposto la bonifica di una vasca di accumulo fognaria, nonostante ripetute sollecitazioni da parte delle autorità competenti. La mancata manutenzione aveva causato la fuoriuscita di liquami nel litorale comunale, con conseguente danno ambientale.
La Corte ha riaffermato un principio ormai consolidato: chi riveste una funzione apicale nella pubblica amministrazione, come il sindaco, ha una “posizione di garanzia” e può rispondere penalmente ex art. 40, co. 2, c.p. per omissione, se non interviene per prevenire un evento dannoso prevedibile e fronteggiabile.
Scarico illecito o gestione illecita di rifiuti liquidi?
Uno dei passaggi più rilevanti della decisione è la corretta qualificazione giuridica dell’evento ambientale. Il Tribunale aveva inizialmente ritenuto configurabile lo scarico illecito di reflui (art. 137 D. Lgs. 152/2006), ma la Cassazione ha ricondotto la condotta all’abbandono di rifiuti liquidi (art. 256, co. 2), poiché la vasca non era collegata a un sistema stabile e continuo di smaltimento.
Secondo l’art. 74 del D. Lgs. 152/2006, è “scarico” solo ciò che avviene tramite un collegamento diretto e ininterrotto tra la fonte e il corpo recettore. In mancanza di tale sistema (es. vasche da svuotare manualmente), anche i liquidi rientrano nella disciplina dei rifiuti.
La Corte ha ribadito che non è la consistenza fisica del refluo a determinare il regime applicabile, ma la struttura tecnica dello smaltimento.
Conseguenze pratiche
La distinzione non è solo formale: comporta diverse implicazioni sanzionatorie, influisce sul regime autorizzativo, sulla procedura e persino sulla possibilità di subordinare la sospensione della pena alla bonifica del sito inquinato.
Questa sentenza:
– rafforza il principio di responsabilità attiva degli amministratori locali in ambito ambientale;
– chiarisce ancora una volta i confini tra la disciplina degli scarichi illeciti e quella dei rifiuti liquidi;
– sottolinea l’importanza della manutenzione delle infrastrutture fognarie per evitare ricadute penali.
Una pronuncia importante, che si inserisce in un orientamento giurisprudenziale sempre più attento alle omissioni gestionali, e che ricorda come il diritto penale ambientale non tolleri inerzie colpevoli in presenza di situazioni note e rischiose.

Il proprietario di un immobile risponde dell’infortunio mortale avvenuto durante la ristrutturazione?

“Il committente non professionale, può essere ritenuto responsabile per un infortunio sul lavoro solo a determinate condizioni.”

Lo ha ribadito la Corte Cassazione Penale, Sez. 4, con la sentenza del 4 febbraio 2025, n. 4409 che si è occupata proprio di un caso di omicidio colposo (art. 589, commi 1 e 2, cod. pen.) nel quale due soggetti, A.A., nella qualità di committente dei lavori di ristrutturazione di un rudere ex casa colonica, e G.G., in qualità di progettista, direttore dei lavori, coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione dell’opera, per colpa generica e in violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, avevano la morte di H.H.. Questi, mentre era intento a demolire manualmente la muratura portante dell’anzidetto fabbricato (all’interno della quale erano stati posizionati dalla ditta I.I. un ponteggio metallico ed una benna in cui dovevano essere scaricati i materiali di risulta), era stato travolto dal crollo del secondo solaio, sprofondando all’interno del fabbricato e rovinando al suolo sottostante, riportando gravi lesioni cranio encefaliche che ne determinavano l’immediato decesso.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del committente che era stato condannato perché non aveva verificato che la documentazione fosse stata adeguata al mutamento dell’opera e che non aveva nominato, (…) un responsabile dei lavori che vigilasse sul l’operato del coordinatore per l’esecuzione.

La sentenza ha preso atto che il committente era un “privato”, cioè  un soggetto non professionale, come avviene quasi sempre negli appalti domestici, dove chi affida i lavori, solitamente il proprietario dell’immobile non ha competenze tecniche per esigere il rispetto della normativa antinfortunistica. Neppure si  può pretendere che egli abbia quelle conoscenze, altrimenti si bloccherebbe la manutenzione domestica che richiederebbe una formazione per i cittadini comuni, peraltro non prevista dalla legge.

Ciò però non significa che il committente privato sia del tutto privo di obblighi e, quindi, di responsabilità.

In primo luogo, egli risponde per la cosiddetta “culpa in eligendo”, ovvero per aver scelto una ditta esecutrice chiaramente non idonea a svolgere quei lavori oppure priva dei titoli previsti dalla legge. Inoltre, egli è responsabile se si è intromesso nell’organizzazione o nell’esecuzione del lavoro, o se ha ignorato situazioni di pericolo facilmente percepibili.”

In merito alla mancata nomina di un responsabile dei lavori, ossia la figura tecnica che il committente non professionale può (o, meglio, deve) individuare proprio per sopperire alle sue mancanze conoscitive, i giudici hanno evidenziato che l’imputato aveva dato ampio mandato ad un altro soggetto la cui caratura professionale era stata riconosciuta anche dai giudici di merito.

Orbene: questo soggetto aveva agito, di fatto, come il responsabile dei lavori, sebbene l’incarico conferitogli non facesse formale richiamo a tale figura. Il che è stato sufficiente, per la Suprema Corte, per mandare esente da responsabilità il privato.

Questa sentenza si inserisce in un solco esegetico consolidato che raramente ha trovato espressioni contrarie.